Con questo ultimo post chiudo la trilogia di articoli sulla tecnologia fotovoltaica per la produzione di energia elettrica.
Dopo aver descritto lo stato dell’arte nel presente e parlato del passato, con alcuni cenni storici, vi parlo del futuro di questa tecnologia che appare molto roseo anzi…direi azzurro, ma che dico azzurro…. di tutti i colori!
Una prima considerazione da fare riguarda la scala disciplinare in cui è stato affrontato e sviluppato il tema del fotovoltaico.
L’inizio lo si deve agli scienziati che, scoperto il fenomeno fisico, hanno svolto le ricerche e gli approfondimenti necessari a rendere la tecnologia disponibile per le applicazioni pratiche. Hanno percorso cioè tutto lo spazio che serve per portare a termine la ricerca pura, con adeguati risultati, per poi passare alla ricerca applicata, con le sperimentazioni sul campo e le implementazioni e correttivi, fino agli affinamenti che hanno portato a rendere la tecnologia matura, compresa la competitività sul mercato del consumatore finale.
Dopo gli scienziati è stata la volta degli ingegneri che si sono preoccupati di dare forma e consistenza ai componenti da utilizzare per produrre energia con sistemi affidabili, semplici da produrre e da installare, garantiti nel tempo alle usure di ogni genere.
Sono nati così i moduli, gli inverter, le strutture di supporto per i vari utilizzi, i materiali più performanti, i kit di assemblaggio, i dispositivi di sicurezza, la modularità dimensionale, le tipologie (rigide, flessibili, semirigide, vetro/vetro…), le tipologie di connessione, i moduli monoinverter.
Poi è arrivato il turno degli architetti che sono stati chiamati, perfino dallo stesso decreto legge, a lavorare sull’integrazione dei moduli nell’edificio o nel paesaggio.
Sono nati allora i moduli con le celle colorate, prevalentemente di rosso per l’integrazione con i tetti in laterizio, o di verde per l’integrazione paesaggistica.
Sono stati pensati impieghi in verticale, come rivestimento di edifici in facciata continua, anche ventilata. Sono nate forme architettoniche che nascevano proprio dalla disposizione, orientamento e inclinazione dei moduli (ad es. le plus energie haus nel quartiere di Vauban a Friburgo.
Sono nate le serre fotovoltaiche con esempi molto riusciti come l’atrio distributivo dell’ospedale pediatrico Meyer a Firenze o alcune soluzioni del quartiere Bed Zed (Beddington Zero Emission DIstrict) a Londra.
Tuttavia, a mio parere, non è ancora stato fatto il salto di qualità che la tecnologia meriterebbe, nel senso che tutti i tentativi di integrazione sono stati realizzati sempre impiegando il modulo. Non è stato mai messo in discussione il componente standard, salvo alcuni rarissimi esempi, molto particolari, in cui si è lavorato sulla cella e non sul modulo.
Considerare la cella alla stregua di un pixel è un passaggio rapido e semplice ma richiede grandi superfici a disposizione, meglio se vetrate in modo da ottenere suggestivi effetti di captazione e schermatura della radiazione solare.
Insomma, credo che sia giunto il momento dei designer di cimentarsi con questi sistemi per innovare davvero una tecnologia che, dal punto di vista estetico, vive una certa stagnazione creativa. Quando dico designer mi riferisco a coloro che si occupano di disegno industriale e non ai “fenomeni” del gesto che creano progetti one shot disegnando con un pennarello una nuvola ricalcando su parabrezza dell’auto quella che vedono guidando (ricorderete un famoso spot pubblicitario di qualche anno fa…)
C’è un altro filone di ricerca e approfondimento su cui lavorare per innovare la tecnologia fotovoltaica ed è quello del materiale stesso.
In particolare si sta lavorando da anni su componenti a matrice organica, sotto forma di gel o film, che consentono di superare il limite morfologico e dimensionale della cella.
Si tratta di materia semitrasparente o traslucida (più aumenta la trasparenza minore è la resa in conversione dell’energia solare in elettrica) interposta tra due lastre di materiale trasparente, vetro o policarbonato, per realizzare superfici piane di varie dimensioni, ma uniformi e non scandite dal ritmo della singola cella.
Se al materiale esterno, di contenimento del gel fotovoltaico, in lastra rigida si sostituisce un materiale flessibile come il PVC o altro polimero ecco che si ottiene un elemento fotovoltaico flessibile che supera il colore nerobluastro del silicio amorfo.
I materiali organici hanno anche l’ulteriore vantaggio di essere più facilmente reperibili, meno costosi del silicio, migliori da smaltire a fine vita. Insomma più sostenibili dei materiali attualmente impiegati.
Le prime sperimentazioni sono state fatte con la polpa di mirtillo e altri frutti o con alghe, fino a giungere alle più recenti celle a sensibilizzatore organico o DSSC (Dye-Sensitized Solar Cell).
Chiamato anche fotovoltaico di terza generazione, appartiene alla famiglia dei sistemi a film sottile ed offre risultati interessanti, come documentato da un ricerca dell’Università di Siena, i cui membri del team affermano che «Tra le celle solari più innovative, le tecnologie DSSC rappresentano un’alternativa percorribile rispetto ai sistemi tradizionali, sia per vantaggio economico sia per metodologie costruttive eco-friendly, che permettono un migliore riciclo degli elementi, con minore impatto ambientale».
Da una valutazione comparativa con altre tecnologie fotovoltaiche, condotta dal team senese, si deduce che «le caratteristiche strutturali e di funzionamento rendano le DSSC più vantaggiose sia per minori costi di smaltimento che per un ridotto impatto ambientale».
Le celle DSSC, note anche come celle di Graetzel, dal nome del ricercatore che le creò nel 1991, riproducono il principio della fotosintesi che avviene nelle cellule degli organismi vegetali.
Una cella è costituita da due vetri conduttori separati da uno strato poroso di biossido di titanio, un materiale semiconduttore che viene impregnato di colorante naturale, e da una soluzione elettrolitica. I vetri fungono da fotoanodo e fotocatodo, mentre il colorante trasferisce elettroni al biossido di titanio in seguito all’assorbimento di fotoni, dando origine ad una coppia lacuna-elettrone, similmente a quanto avviene nei dispositivi a semiconduttore; l’elettrolita, invece, serve per rendere continuo il processo di scambio di elettroni, generando, quindi, una corrente elettrica. Le celle assumono vari colori diversi (dal rosso all’arancio, dal giallo al verde) a seconda delle sostanze organiche utilizzate: tra le più usate abbiamo le antocianine, estratte dal succo di more o lamponi.
Le rese sono ancora basse ma il risultato estetico è davvero interessante.
Tra gli impieghi più recenti possiamo citare il padiglione dell’Austria all’Expo di Milano: una facciata del padiglione di 90 m2 era realizzata con celle capaci di produrre circa 24 kWh al giorno di energia.
Ma l’impiego a più vasta scala e dall’effetto più riuscito è senz’altro La facciata ovest del SwissTech Convention Center nel campus dell’école polytechnique federale di Losanna. Una parete di 300 m2 di vetro trasparente e colorato in cui la luce solare che entra crea giochi di luce sorprendenti all’interno della sala. Costituita da 1400 moduli solari di dimensioni 35 x 50 cm, oltre a schermare in parte gli ambienti interni dalla luce solare produce circa 2000 kWh di energia all’anno!
Per chiunque fosse interessato a saperne di più l’invito è sempre a scrivermi qui sotto nei commenti o direttamente alla e-mail egidio@egidioraimondi.com
Buon fotovoltaico a colori a tutti!
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